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Delitto di Lidia Macchi, quattro decenni di errori e un innocente condannato per sbaglio

Lidia Macchi, scomparsa il 5 gennaio del 1987, è stata trovata senza vita due giorni dopo in una zona boschiva vicino alla ferrovia di Cittiglio, in provincia di Varese. A distanza di 37 anni il suo assassino non ha ancora un nome.

Trentasette anni senza una verità. Che forse ormai è morta e sepolta insieme alla vittima.

In una fredda notte di inizio gennaio, il 5 gennaio del 1987, in un boschetto a due passi da Varese, viene massacrata con 29 coltellate una studentessa 21enne varesina, Lidia Macchi.

Un cold case particolare, diverso dagli altri, destinato a restare illuminato dai riflettori della cronaca anche a quasi quattro decenni di distanza, tra errori investigativi e la condanna di un innocente.

Lidia Macchi, la ragazza di Comunione e liberazione

Quello di Lidia Macchi è un omicidio particolare per diversi risvolti.

Lidia è una studentessa di 21 anni al secondo anno di Giurisprudenza all’Università, alla Cattolica del Sacro Cuore.

Brava ragazza di buona famiglia, brava studentessa, senza grilli per la testa, tutta casa, famiglia, studio e frequentazioni cattoliche.

Fa la volontaria negli scout, aiuta all’oratorio, è ben voluta da tutti. Frequenta gli ambienti di Comunione e liberazione, influenti e ramificati nella parte occidentale della Lombardia. 

Anche se il suo delitto matura in circostanze diverse, lontane: in una notte gelida di inizio gennaio Lidia viene trucidata con 29 coltellate in auto, nella Panda del padre che utilizzava per i suoi spostamenti.

Scompare il 5 gennaio e verrà ritrovata il 7 nei boschi di Cittiglio, in una zona allora frequentata da tossicodipendenti.

Quella domenica nel tardo pomeriggio Lidia era stata a trovare un’amica ricoverata proprio all’ospedale di Cittiglio, poi avrebbe dovuto rincasare e invece, forse contro la sua volontà, è finita in quel boschetto.

Dove ha subito violenza sessuale prima di essere aggredita.

Un passaggio chiave nella ricostruzione del delitto perché fin da subito tra gli inquirenti si fa strada la convinzione che quelle troppe coltellate siano state inferte in un delirio connotato dall’idea di punire la ragazza per aver perduto il valore della castità, pur suo malgrado.

La lettera ‘In morte di un’amica’

A rafforzare la convinzione di chi indaga arriva una lettera anonima recapitata a casa della vittima nel giorno del suo funerale, forse infilata nella buca postale proprio nel momento in cui i suoi cari erano in chiesa per le esequie.

Una lettera farneticante, in uno stile che richiama quello delle terzine dantesche e dei poeti maledetti francesi, dall’ inquietante titolo ‘In morte di un’amica’. Tra quelle righe confuse, zeppe di richiami religiosi, ci sarebbero anche riferimenti all’omicidio ancora non rivelati dagli inquirenti e dalla stampa, per cui passa l’idea che il mittente sia per forza coinvolto nel delitto.

Scoprire chi ha scritto quella lettera porterà al colpevole, questo il teorema dell’accusa.

Al setaccio gli ambienti cattolici

Nei giorni successivi al delitto gli inquirenti passano al setaccio gli ambienti cattolici varesini, e anche quelli milanesi, vengono messi sotto torchio seminaristi e sacerdoti, alcuni di loro forniscono alibi difficili da verificare: una nutrita comitiva quella domenica del delitto era in gita in montagna ma le presenze dei partecipanti non sono registrate, ci si basa sulle testimonianze dei presenti sul bus, alcune sono contraddittorie.

Durante gli interrogatori viene sentito un 19enne varesino, Stefano Binda: conosceva Lidia di vista, ma viene audito come testimone sull’alibi di un seminarista. Di lui non si parlerà più per trent’anni.

Tre decenni di indagini infruttuose 

Sotto la lente d’ingrandimento finisce un sacerdote che verrà poi scagionato dopo anni. Quindi si aprirà la pista infinita del maniaco, indicato da mille diverse segnalazioni come un soggetto losco che si aggirava in quelle settimane proprio nei pressi dell’ospedale di Cittiglio.

Nel 2013 il maniaco sembra avere un volto, quello di un feroce assassino, Giuseppe Piccolomo, arrestato per un terribile delitto avvenuto nel varesotto, il delitto di una 82enne cui vennero amputate le mani. Il ‘killer della mani mozzate’ nel 1987 abitava in quella zona e avrebbe una somiglianza fisica con le descrizioni del maniaco di 25 anni prima, ma il dna del presunto killer rivelato dai vestiti della Macchi non è il suo.

Intanto dal 2000 i vetrini con il liquido seminale dell’uomo che ha consumato il rapporto sessuale nella Panda con Lidia sono andati perduti, per cui ulteriori raffronti sono impossibili.

Stefano Binda accusato, condannato e prosciolto

Nel 2015 un’improvvisa svolta clamorosa accende i riflettori sul caso Macchi: una testimone assistendo ad una trasmissione televisiva riconosce nella scrittura della lettera ‘In morte di un’amica’ quella di un ex compagno di scuola, il 47enne Stefano Binda.

Un uomo dal passato difficile con problemi di tossicodipendenza, ma incensurato e mai entrato nell’inchiesta se non come testimone.

Non ha un alibi per quella notte di 28 anni prima, basta questo a inchiodarlo.

Amante della poesia, uomo colto, nelle perquisizioni nella sua abitazione vengono rinvenuti taccuini e quaderni con frasi che possono richiamare il testo della lettera: tutta qui l’accusa contro di lui, accusa che eppure porta Binda subito in carcere e poi ad una condanna nel 2016 all’ergastolo.

L’uomo da innocente resterà in carcere tre anni e mezzo, verrà liberato dopo l’assoluzione in Appello e poi prosciolto definitivamente dalla Cassazione.

L’uomo sbagliato. Lo Stato risarcirà a Stefano Binda la cifra 303mila euro, 230 euro per ogni giorno passato ingiustamente dietro le sbarre, senza alcuna prova a suo carico.

Di fatto il processo a Binda fa passare in secondo piano la caccia ormai datata di trent’anni al vero colpevole.

I richiami con il delitto della Cattolica del 1971

L’omicidio di Lidia Macchi presenta analogie inquietanti con il delitto della Cattolica, il delitto di Simonetta Ferrero trucidata con 46 coltellate nei bagni dell’ateneo milanese il 26 luglio 1971.

Le due vittime hanno profili simili, sovrapponibili, brave ragazze di buona famiglia che frequentavano ambienti cattolici.

Lettere anonime inviate alla Questura di Milano indicheranno la stessa mano omicidiaria per entrambe, indicando su sacerdoti e seminaristi.

Qualcuno tra gli inquirenti ipotizzerà persino che Lidia Macchi possa essere una vittima del Mostro di Milano, il presunto serial killer che avrebbe ucciso con grandinate di coltellate almeno 11 donne a Milano tra la fine degli anni sessanta e il 1975, tra queste la stessa Simonetta Ferrero.

Una lunga scia di sangue, una lunga scia di cold case quelli attribuiti al Mostro. Come i delitti di Simonetta e Lidia…

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