Da rapinatore di borgata a ottavo Re di Roma con coperture e connivenze con istituzioni, mafia, Vaticano e massoneria. La storia di Enrico De Pedis.
Nel suo mezzo cammino di un’esistenza a tutto gas, conclusa a 35 anni, ha avuto potere, denaro, amicizie importanti. E un successo, indubbio, nel suo campo, quello del crimine. Ma solo oltre vent’anni dopo la sua scomparsa ha ottenuto una fama postuma che lo ha trasformato in una sorta di personaggio mitologico, leggendario, molto lontano da quello che in realtà è stato nei dieci anni della sua parabola criminale.
Quello di Enrico De Pedis oggi è un nome noto al grande pubblico, con il suo alias Renatino, per i suoi modi eleganti, gli abiti di sartoria, il suo voler ostentare un lusso acquisito per scacciare l’odore della strada e del carcere che lo avevano accompagnato fino ai 25 anni.
Il grande pubblico lo ha conosciuto grazie a Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo, con l’azzeccatissimo appellativo di Dandi.
Personaggio interpretato nel piccolo o grande schermo dagli attori più noti del nostro cinema: Claudio Santamaria, Alessandro Roja, Riccardo Scamarcio, Edoardo Leo.
Sono loro ad aver amplificato la popolarità postuma di questo piccolo criminale di borgata diventato boss.
E non solo.
Chi era Enrico De Pedis detto il “Renatino”?
Difficile catalogare De Pedis, criminale atipico, perché abile e furbo nel coltivare amicizie influenti nel coacervo di intrighi della Roma degli anni ottanta.
Il suo decennio, gli anni in cui ha surfato la sua onda, fino all’epilogo un po’ scontato: una banale esecuzione classica, nel febbraio del 1990, due killer su una moto che lo ‘stendono’ sui sanpietrini di via del Pellegrino, la strada che nei secoli precedenti conduceva i fedeli verso la Santa Sede.
Una strada evocativa per la fine di un criminale che ha intrecciato la sua fama con i misteri vaticani.
Enrico De Pedis, da piccolo criminale di borgata a boss
Quella di De Pedis fino al 1980 è una storia criminale come tante altre. Un piccolo malavitoso di borgata che campa di rapine, finisce dentro, entra e esce. Serate nei night, macchine costose, donne ancora più costose, soldi sporchi. È uno dei capetti della batteria del Testaccio, gente tosta, che non ha paura di sparare e finire dentro.
L’incontro con altre teste calde, quelli della batteria di Trastevere capeggiata da Franco Giuseppucci, detto Er Negro per la sua carnagione mediterranea, porta alla nascita di una banda che non ha un nome, ma che tutti impareranno a conoscere e a temere a fine anni settanta.
La Banda della Magliana
Diventeranno quelli della Magliana, perché si riuniscono in un bar di quella borgata, sono giovani, spietati, senza scrupoli. Alzano il grano con un rapimento che si conclude con l’uccisione del sequestrato, incassano due miliardi, investono nella droga e nelle scommesse, ammazzano i capi dei clan rivali e si prendono gli affari sporchi di Roma.
È una storia ormai nota, come l’epilogo: Giuseppucci viene freddato nel 1980 per uno sgarro di troppo e lo scettro di capo passa a De Pedis, un 25enne che la sa lunga.
E’ lui a trasformare la banda in una vera organizzazione mafiosa, alla pari con i boss siciliani e campani.
Sono gli anni in cui i corleonesi scalano la cupola a Palermo, in cui Cutolo rivoluziona la Camorra a Napoli, in cui Maniero si prende il ricco Nord Est e Turatello e Epaminonda si fanno la guerra per il controllo di Milano.
Ma sono anche gli anni del terrorismo, delle stragi di Ustica e della stazione di Bologna, dell’uccisione del generale Dalla Chiesa, dei crac delle grandi banche milanesi, come il Banco Ambrosiano di Calvi che finisce impaccato a Londra sotto il ponte dei Frati Neri.
Succede tutto in quei primi anni ottanta e l’onda di misteri e intrighi investe anche il Vaticano.
Lo scandalo IOR e il rapimento di Emanuela Orlandi
Il centro di questa tempesta perfetta di crimini e complotti è Roma. E il Vaticano che ne fa parte.
All’ombra del Cupolone avvengono fatti sconvolgenti: un Pontefice, papa Luciani, muore dopo appena tre mesi, il suo successore, papa Wojtyla, subisce un attentato in piazza San Pietro due anni più tardi. E poi c’è la banca dei misteri, lo IOR, da dove entrano e escono vagonate di miliardi di dubbia provenienza.
E’ in questo quadro oscuro che si inserisce Enrico De Pedis, il criminale, il boss, ma anche l’uomo dei salotti della Roma bene, delle notti nei night con politici e faccendieri, dei rapporti con i mafiosi, con la P2 e con le alte sfere vaticane che lo definiranno un benefattore dopo la sua uccisione.
Emanuela Orlandi, De Pedis e quella tomba in Sant’Apollinare
Secondo la sua ex amante, e alcuni suoi ex complici, è lui che fa rapire Emanuela Orlandi nel giugno 1983, forse per mettere pressione alle alte sfere vaticane per questioni di denari, centinaia di miliardi, legati allo IOR: la 15enne, secondo i suoi delatori, muore durante il sequestro, forse nelle prime ore, per soffocamento, forse dopo qualche mese.
Versioni contrastanti e tardive, spifferate quando De Pedis è morto da un pezzo, come gli altri capi della banda, e riposa in una tomba dentro la basilica di Sant’Apollinare, proprio nel luogo dove la Orlandi è sparita nel nulla.
Il suo cadavere verrà riesumato vent’anni dopo, nella vana ricerca delle ossa proprio della povera Emanuela, e poi cremato. Le sue ceneri verranno sparse sul cielo di Roma, la città che ha dominato con il ferro e il fuoco per qualche anno, tra delitti e misteri, in una parabola troppo veloce per durare.
Personaggio mitologico e leggendario, ma ammazzato, alla fine, come un qualunque malvivente, con un banale agguato in strada, come tanti altri nella cronaca italiana. E per tanti anni dimenticato dalla cronaca, dalla stampa e dalla magistratura. Fino alla ritardata celebrità postuma del nuovo millennio.