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Banda della Uno bianca, riaperto il caso: rapinatori o terroristi?

Riaperte le indagini sulla Banda della Uno bianca, che seminò il panico in Emilia-Romagna e nelle Marche a cavallo degli anni ’80-90, compiendo rapine e omicidi che costarono la vita a 24 persone e provocarono più di 100 feriti. Secondo i famigliari delle vittime, dietro questo caso aleggiano ancora troppi misteri e dubbi non risolti.

La storia della Banda della Uno bianca

La storia della Banda della Uno bianca è una vicenda cruenta e intricata, che riguarda un’organizzazione criminale italiana che operò in Emilia-Romagna e nelle Marche tra il 1987 e il 1994. Il nome della banda deriva dall’utilizzo frequente di Fiat Uno di colore bianco, facili da rubare e difficili da identificare essendo molto diffuse in quei tempi.

Il primo colpo avvenne il 19 giugno 1987, al casello di Pesaro, dove i rapinatori riuscirono a rubare circa 1.300.000 lire. Successivamente, effettuarono numerose altre rapine ai caselli autostradali nel giro di poco tempo. Seguì un tentativo di estorsione ai danni di un auto rivenditore riminese, Savino Grossi. Le forze dell’ordine organizzarono un’operazione sotto copertura, che culminò però con l’omicidio del sovrintendente della Polizia di Stato, Antonio Mosca.

Da qui in poi, si verificò una serie di omicidi ai danni di ufficiali di polizia, commercianti rapinati e testimoni. Tra i delitti più conosciuti ci sono la strage del Pilastro del gennaio 1991, nella quale persero la vita gli ufficiali Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, e il duplice omicidio degli agenti Cataldo Stasi e Umberto Erriu, avvenuto a Castel Maggiore nell’aprile del 1988.

Chi sono componenti del gruppo?

Per gli omicidi e il terrore seminato in quel periodo, furono processate sei persone, di cui cinque facevano parte delle forze dell’ordine. Sospetto che girava ormai da tempo fra gli inquirenti che notarono, oltre a un abile uso delle armi da fuoco, talvolta difficilmente reperibili, degli atteggiamenti particolari durante le rapine riferiti dai testimoni e nelle esecuzioni di stampo militare.

Roberto Savi, al momento dell’arresto ricopriva il ruolo di assistente Capo presso la questura di Bologna. La moglie lo descrisse come un uomo strano e aggressivo, taciturno e schivo, che impiegava la maggior parte del suo tempo con i fratelli o giocando ai videogiochi.

Fabio Savi, co-fondatore della banda e fratello di Roberto. Svolse molti lavori saltuari, non essendo riuscito ad entrare in polizia per un difetto di vista. Venne descritto come un uomo spavaldo e aggressivo. La testimonianza della sua ragazza di quei tempi, Eva Mikula, si rivelò molto importante per le indagini.

Alberto Savi, il più piccolo dei tre fratelli, anch’esso poliziotto. Viene definito come debole di carattere e succube della personalità dominante dei fratelli maggiori.

Pietro Giuliotta, svolgeva la funzione di operatore radio presso la questura di Bologna assieme a Roberto Savi. Non prese mai parte alle azioni omicide del gruppo e per questo ricevette una pena più lieve.

Marino Occhipinti, ricoprì il ruolo di vice-sovrintendente della sezione narcotici della Squadra mobile di Bologna. Membro minore della banda, fu condannato per la sua presenza nell’assalto a un furgone della Coop di Casalecchio di Reno, durante il quale morì una guardia giurata.

Luca Vallicelli, era agente scelto presso la polizia stradale di Cesena. Coinvolto marginalmente, avendo preso parte solo alla prima rapina al casello autostradale nella quale non si verificarono spargimenti di sangue.

Riapertura delle indagini

Recentemente i familiari di alcune delle vittime hanno richiesto e ottenuto la riapertura del caso, convinti che la verità debba ancora venire a galla. Una delle principali ipotesi è che dietro ai crimini ci fossero dei mandanti con intento terroristico legato alla strategia della tensione. La Procura di Bologna ha quindi aperto un’indagine a carico di ignoti con l’ipotesi di concorso in omicidio.

Nel 2001 Fabio Savi, intervistato dal programma “Storie maledette”, in onda su Rai 3, dichiarò che l’obiettivo della banda era il denaro. Quando lo scrittore Carlo Lucarelli, nel programma “Blu notte – Misteri italiani“, ipotizzava il celarsi di un’organizzazione segreta dietro alle azioni della banda, Fabio Savi riferì che “Dietro la Uno bianca c’è soltanto la targa, i fanali e il paraurti. Non c’è nient’altro”.

Molti dubbi però persistono ancora oggi. Rispetto ad alcuni avvenimenti non sussiste la motivazione del furto di denaro. Per esempio, per quanto riguarda l’esplosione di una bomba alle Poste di Bologna nel 1990, nel giorno di ritiro della pensione degli anziani.

Alessandro Stefanini, fratello di uno degli agenti rimasti uccisi nella strage del Pilastro, è convinto che ci fossero altri soggetti coinvolti che sono ancora a piede libero. Stefanini ha espresso la necessità che vengano riascoltate alcune persone che potrebbero rivelarsi significative per il caso. Tra queste Domenico Macauda, sospettato di non aver riferito tutto ciò che sapeva al momento del suo arresto.

Chi è Domenico Macauda?

Ex sottufficiale del nucleo operativo dei carabinieri di Bologna, venne arrestato nel giugno del 1988 con l’accusa di depistaggio. Fu sospettato di aver piazzato il bossolo di un proiettile nell’auto abbandonata dagli assassini nel delitto di Castel Maggiore e di aver fatto ritrovare altri bossoli uguali nell’abitazione di alcuni pregiudicati.

Dopo essersi dichiarato colpevole venne condannato a 8 anni e 4 mesi, ma non spiegò mai perché avesse compiuto tale atto. L’ipotesi più diffusa è quella che desiderasse fare carriera all’interno dell’arma. Altri pensano che ci sia dietro un fine diverso e forse più oscuro.

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