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Omicidio Alpi-Hrovatin, intervista a Chiara Cazzaniga

L’inviata di “Chi l’ha visto?” è stata quella che ha fatto riaprire il caso, determinando l’assoluzione dell’unico imputato, ingiustamente accusato. Le abbiamo assegnato il Premio per il Giornalismo d’Inchiesta agli Investigation & Forensic Award 2023 e fatto questa intervista.

Qual è stato il momento più difficile della tua inchiesta sul caso Alpi/Hrovatin?
Quando Federica Sciarelli mi ha chiesto di cercare Ahmed Ali Rage – detto Gelle – ho pensato che fosse una sorta di “missione impossibile”. Il super testimone era latitante da tantissimi anni, “irreperibile” per la giustizia italiana, come poteva trovarlo una giornalista? Federica, però, mi ha rassicurata: “Prenditi tutto il tempo che ti serve”. Ci ho impiegato un anno, ma alla fine – grazie alla comunità somala e a una preziosissima fonte – sono riuscita a trovarlo. Sicuramente la parte più difficile è stata individuare i canali giusti, intrecciare rapporti con la comunità somala, guadagnarmi la loro fiducia. Gelle all’inizio era diffidente, si chiedeva perché qualcuno lo cercasse dopo tanti anni. La grande fortuna è stata quella di avere alle spalle una trasmissione come “Chi l’ha visto?”, riconosciuta da tutti per l’estrema serietà. Prima di partire però una fonte mi aveva avvertita che poteva essere rischioso, tanto che Federica Sciarelli – sempre al mio fianco – mi chiese se me la sentivo, ma non ho mai avuto alcun dubbio. Volevo trovare Gelle, parlare con lui, capire perché avesse detto delle menzogne e fatto finire in carcere un innocente.
Ti aspettavi che Gelle avrebbe raccontato la verità?
Innanzitutto finché non me lo sono trovata davanti non credevo potessi incontrarlo. E invece, eccolo lì, in una stanza di un centro culturale islamico di Manchester. Quando sono partita non sapevo cosa aspettarmi, pensavo mi sarei trovata di fronte a un astuto criminale, a un abile latitante che si era preso gioco della giustizia nostrana. E invece ho trovato un uomo quasi spaesato, che per due ore mi ha parlato come un fiume in piena, senza omettere alcun particolare. Ero stupita da una parte, amareggiata dall’altra. Gelle mi raccontò che aveva mentito, che non era un testimone del duplice omicidio, che non aveva visto nulla, che in quel momento lui era all’ambasciata americana a Mogadiscio – circostanza, questa, emersa anche anni prima durante il processo a carico di Hashi Omar Hassan – che gli “italiani” in Somalia in cambio di un passaporto, un biglietto per l’Italia e dei soldi gli avevano chiesto di mentire. Doveva dire che il duplice omicidio era frutto di una rapina e doveva indicare un colpevole, Hashi appunto. Mi raccontò che non prese tutti i soldi, perché non si presentò al processo, “non ho finito il lavoro”, mi disse. Scappò prima, diventando un fantasma. Non incontrò nemmeno Hashi in Italia. Non ci fu mai un riconoscimento di persona. Mi spiegò che nel 2002, quando Hashi Omar Hassan venne condannato in via definitiva a 26 anni per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, chiamò un giornalista somalo della BBC – Aden Sabrie – per raccontare che era tutto falso, che in carcere era finito un innocente. Il giornalista registrò la telefonata, la consegnò agli avvocati di Hashi Omar Hassan, venne addirittura celebrato un processo in contumacia per calunnia nei confronti di Gelle, che venne assolto perché non si poteva dimostrare che quella fosse effettivamente la sua voce. Ma era la sua.
Non è paradossale che ci sia voluta una giornalista per scoprire la verità?
E’ paradossale, certo, ma la sensazione è che Gelle non sia mai stato realmente cercato. Gli hanno permesso di scappare dall’Italia, nonostante fosse controllato notte e giorno. Per il tribunale del riesame di Peugia, che ha assolto per non aver commesso il fatto Hashi Omar Hassan dopo 17 anni passati in carcere da innocente, c’è stato un depistaggio. Si legge nelle motivazioni che queste condotte: “generano sconcerto: Gelle era un teste chiave […] costantemente sotto controllo […] E malgrado ciò, di punto in bianco, era scomparso, all’apparenza senza lasciare traccia, eludendo la sorveglianza e senza che risultino essere state effettuate ricerche mirate per cercare di rintracciarlo. Ricerche che proficuamente sono state svolte anni dopo, senza neppure particolare difficoltà, non dalle forze di polizia, ma da giornalisti della Rai”.
Da dove potrebbero venire, oggi come oggi, pezzi di verità su questa storia?
Da chi era lì, a Mogadiscio, a Balad, a Bosaso. Dalle persone che non sono mai state sentite dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta. I nomi ci sono, alcuni giornalisti li hanno indicati. Ma bisogna fare in fretta. Sono passati quasi 30 anni, tante persone purtroppo sono morte, alcuni testimoni non ricordano più dopo tanto tempo.  

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