La teoria dell’etichettamento rappresenta la naturale evoluzione degli studi della Scuola di Chicago. Il soggetto deviante è considerato un outsider, ovvero colui che sta al di fuori della conformità sociale. La devianza è l’effetto dell’applicazione di certe regole e delle sanzioni da parte di alcuni (“etichettatori”) a danno di altri (“trasgressori”).
La teoria dell’etichettamento utilizza la metodologia della Scuola di Chicago e ne rappresenta il punto di arrivo: l’attenzione si sposta dall’individuo alla reazione che i membri di un contesto sociale pongono in essere. Quindi l’attenzione è focalizzata sulla società che, giudicando un determinato comportamento come deviante, crea la devianza. È il contesto sociale che definisce un comportamento come deviante o conforme, in base alla sua percezione e questa percezione può modificare e cambiare nel tempo, in quanto un comportamento ritenuto deviante oggi può non esserlo in futuro.
La teoria dell’etichettamento quindi scompone e analizza la reazione del contesto sociale nei confronti di un comportamento ritenuto deviante da quello stesso contesto e in un determinato periodo. Secondo questa teoria quindi non è la devianza che genera controllo sociale, ma l’eccessivo controllo sociale che invece genera la devianza, attribuendo un’etichetta al soggetto deviante.
Anche Durkheim sosteneva che l’individuo diventa deviante non perché viola la legge ma perché è stato etichettato come tale dalle autorità istituite. Questa teoria si diffonde in ambito anglosassone negli anni ’50-’60, per poi diffondersi nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. In Italia si diffonde a partire dagli anni ’70.
Howard Saul Becker (1928) ha apportato un grande contributo alla teoria dell’etichettamento creando un modello più complesso, sostenendo che sono i gruppi sociali che, istituendo delle norme, creano la devianza. Le sue teorie sono ben espresse nel volume “Outsiders. Saggi di sociologia della devianza.”
Per Becker è molto importante il significato che le persone danno al proprio comportamento: l’individuo diventa deviante in seguito ad un percorso complesso che costruisce egli stesso, grazie all’interazione con il contesto sociale. La posizione dell’autore si colloca all’interno dell’interazionismo-simbolico: la devianza è un’esperienza sociale che emerge dall’interazione tra persone che agiscono insieme.
Un altro autore che si unisce al pensiero di Becker è sicuramente Edwin Lemert, il quale parla di stigmatizzazione come quel processo che porta a distinguere pubblicamente dei soggetti come moralmente inferiori mediante una errata attribuzione di etichette. Nell’Antica Grecia lo stigma era il marchio a fuoco impresso su una persona per indentificarlo come schiavo, traditore o criminale, oppure per distinguere i capi di bestiame. L’etichetta è uno stigma che contrassegna qualcuno per tutta la sua vita: la società, etichettando l’individuo, lo deresponsabilizza: questo porta il soggetto a riorganizzare il suo io: adattandosi alla sua nuova identità di deviante, arriva ad autoconvincersi di essere così come la società l’ha etichettato e quindi si comporta di conseguenza.
Ogni soggetto nel corso della sua vita può alternare comportamenti devianti a comportamenti conformi, quindi non possiamo sostenere che esistono solo persone del tutto devianti e solo persone del tutto conformi. Tuttavia un soggetto può essere considerato totalmente deviante quando viene raggiunto dalle istanze del controllo sociale.
Contrariamente a quanto sostenuto dalle teorie precedenti, è proprio il tentativo del contesto sociale, teso ad identificare, punire e prevenire la devianza, a causarne di fatto l’insorgenza.
Se preveniamo, identifichiamo e puniamo comportamenti che riteniamo devianti, agevoliamo il verificarsi del comportamento stesso.