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Il Killfie (o killer selfie): quando un selfie può uccidere

L’autoscatto, o selfie, è diventato ormai un modo di esprimere sé stessi, i propri stati d’animo, le situazioni e i luoghi in cui ci troviamo. Ma la sete di popolarità sui social, a volte, può essere letale e dal selfie al killfie il passo è, purtroppo, breve. Cerchiamo di comprenderne le cause.

Perché parlare di selfie e killfie?

Il selfie è un fenomeno recente ed è stato definito come la parola dell’anno nel 2013 dall’Oxford Dictionary. È stato definito come una fotografia che una persona scatta di sé stessa (o di un gruppo nel quale essa è presente) di solito utilizzando uno smartphone verosimilmente con lo scopo di condividerla sui social media.

Google ha stimato che 24 bilioni di selfie siano stati caricati in Google photo nel 2015 e circa un milione al giorno vengono cliccati da soggetti fra i 18 e i 24 anni, i cd. millennial; questa viralità della cultura del selfie è nota anche per causare interruzioni del servizio sulle piattaforme di social media più diffuse.

Questo fenomeno è stato anche coadiuvato dalla tecnologia che lo ha promosso: infatti, basta una breve ricerca su Google o qualsiasi altro motore di ricerca per scoprire siti che condividono informazioni su “come ottenere un selfie perfetto” e “pose differenti per il selfie”. Non solo, sono stati introdotti nuovi termini come koolfie, restaurantfie, musclefie, dentisfie e moltissimi altri; l’introduzione di bastoni per il selfie e le cd. “selfie shoe” hanno aumentato l’ossessione tra le persone per l’autoscatto.

Si può affermare che, adesso, si sceglie uno smartphone in base alla sua capacità di scattare selfie di qualità superiore.

Scattare selfie e condividerli sui social media è diventato un modo di esprimere sé stessi e le persone qualche volta si ritraggono in situazioni pericolose al fine di ottenere attenzione su questi siti. Tuttavia, in qualche caso le situazioni precipitano verso conseguenze fatali.

Dal selfie al killfie: chi è il colpevole?

Non è solo “colpa” dei social se la moda del selfie ha preso così piede. Essa deriva anche da tanti altri rivoli “inquinati”, quali l’imitazione, la sfida, la gratificazione, l’antagonismo malati, fino ad arrivare al sistema scolastico. Alcuni college e scuole organizzano gare volte a premiare il “miglior selfie”. È lo stesso sistema-scuola a diffondere l’antagonismo, che può poi deviare verso derive pericolose.

La psicologia cerca di trovare un responsabile: le teorie di Kahnemann

Ovviamente, i selfie di per sé non sono pericolosi; possono esserlo i comportamenti umani, in questo caso quello dei giovani. Molteplici cause concorrono a offrire spiegazioni di tali comportamenti esiziali. Il filo rosso utile per la loro interpretazione è il funzionamento della mente vista attraverso gli studi condotti dallo psicologo israeliano Daniel Kahneman.

Nel 1968, lo studioso cominciò a lavorare sulle modalità decisionali: lo scopo era quello di comprendere come si sviluppino i giudizi e quali siano i processi che portino a prendere delle decisioni piuttosto che altre.

Pensieri lenti e pensieri veloci: perché le scorciatoie mentali sono le più comode

Secondo lo psicologo israeliano, la mente umana esegue due tipologie di pensiero: razionale e intuitivo. Il pensiero razionale funziona in maniera lenta, sequenziale, faticosa e controllata, mentre il pensiero intuitivo è veloce, automatico, senza sforzo, associativo e difficile da controllare.

Da esso nascono percorsi mentali utili a giungere a delle conclusioni: si tratta delle euristiche, o scorciatoie mentali, che suppliscono i processi di pensiero razionale. Esse consentono di creare una prima impressione, e di arrivare in maniera rapida, veloce e senza sforzo a delle conclusioni: si tratta di processi mentali intuitivi, che consentono di giungere a un’idea in fretta e senza fatica.

Sono, dunque, delle scorciatoie molto utili in determinati ambiti, ma pericolose in altri perché possono produrre errori di giudizio (bias cognitivi), che interferiscono con il funzionamento del pensiero intuitivo, alterando la percezione di molti eventi. Questi errori di giudizio dipendono, sostanzialmente, da meccanismi universali che presiedono il recupero di conoscenze razionali, e agiscono secondo automatismi mentali che portano a prendere decisioni velocemente, ma il più delle volte sbagliate perché fondate su pregiudizi o percezioni errate o deformate.

Dunque, due vie di decisione: il “Sistema 1” guarda a un orizzonte temporale di brevissimo periodo, opera in fretta, è un “pensiero veloce”, è intuitivo, impulsivo, è volto alla gratificazione immediata; il “Sistema 2” è dedito ad attività mentali impegnative, dà ordine e senso alle informazioni che gli provengono dal “Sistema 1”, supporta il processo decisionale di lungo periodo. Sobbarcandosi il fardello più gravoso, è inevitabile che esso sia un “pensiero lento”.

Il pensiero veloce e il selfie

Proprio le sue caratteristiche inducono a ipotizzare che i giovani si avvalgano soprattutto del “Sistema 1”, il pensiero veloce. Partendo da questo presupposto si possono spiegare molti comportamenti che i social network amplificano, viralizzano, incitano. Senza contare che ciò che si fissa nella memoria degli individui è ciò che è più sensazionale; a sua volta, ciò che è più sensazionale si viralizza, e a quello che si viralizza viene annessa una maggiore probabilità di accadere.

Tale circolo vizioso fa sì che se il selfie estremo, oggetto di viralizzazione, viene giudicato più frequente di quanto lo sia; di conseguenza, la competizione porta il giovane verso un’escalation per sbaragliare tutti gli altri e diventare il cult o il capo-branco, ovvero degno di entrare a far parte di una determinata community cui aspira.

Talora sullo sfondo di disagi psicologici, spesso privi di stimoli nel trascorrere un “tempo di qualità”, molti giovani sfruttano i social per veicolare una sorta di antagonismo “malato” sul selfie più audace e rischioso alla ricerca di popolarità e ammirazione fra amici e follower, per il desiderio di conferme, per la voglia di sensazioni forti e adrenaliniche, quando non per la sottomissione alle richieste da parte del branco.

Selfies che uccidono: alla ricerca di un perché

A causa dell’aumento delle morti e dei feriti per un selfie, i ricercatori, hanno deciso di studiare il fenomeno per capire la psicologia degli autori e per comprenderne l’effetto sulle piattaforme dei social media.

Con l’aumento della quantità e del tipo di contenuti pubblicati sui social media, sono emerse diverse tendenze: in passato esistevano i meme, la pubblicità, la segnalazione di eventi di crisi e molto altro. Ora, la moda la dettano gli autoscatti, come si diceva prima.

Un selfie può essere visto non solo come un oggetto fotografico che avvia la trasmissione del sentimento umano sotto forma di relazione tra il fotografo e la fotocamera, ma anche, come affermano Senft e Baym nel loro articolo “Selfies introduction what does the selfie say? investigating a global phenomenon”, come un gesto che può essere inviato tramite i social media a una popolazione più ampia.

Da quanto emerge dagli studi condotti, scattare selfie è diventato un simbolo di auto-espressione e spesso le persone ritraggono il loro lato avventuroso caricandone di pazzeschi, ma con conseguenze spesso pericolose e, a volte, letali.

È stato riportato che il numero di morti per selfie nel 2015 è stato superiore al numero di morti per attacchi di squali.

I pericoli dei selfie

Un tema importante è rappresentato dai pericoli insiti nella tendenza al selfie. Questo perché il numero di like, commenti e condivisioni che i giovani ricevono sui social media per i loro selfie, sono la moneta sociale: il desiderio di ottenere una quantità maggiore di questa moneta sociale li spinge all’estremo

Ad esempio, si è analizzato il caso degli spettatori che scattano selfie nello sport del ciclismo. L’intento era quello di immortalare il momento, ma alla fine il percorso dei ciclisti è stato ostacolato, provocando incidenti.

Una nobile iniziativa #selfietodiefor2 ha pubblicato post sui pericoli di scattare un selfie in una situazione rischiosa, utilizzando l’account Twitter @selfietodiefor per inviare tweet di sensibilizzazione e notizie relative alle morti da selfie.

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