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Uber: cyber-crime e spionaggio industriale

Gli scandali e le proteste, oltre a un mercato in continua espansione, che hanno caratterizzato il 2017 della famosa startup americana dei trasporti.
Il 2017 ha visto Uber, azienda americana che ha rivoluzionato il mondo dei trasporti a livello globale, come protagonista assoluta non solo per essere la startup più redditizia degli Stati Uniti (68 miliardi di dollari), ma per essere finita sulle prime pagine dei giornali del mondo per i numerosi scandali susseguitisi. Il progetto, nato nel 2008 a partire da una brillante intuizione di Travis Kalanick, storico fondatore dell’azienda, consente attraverso un’app di mettere in contatto utenti e autisti, tentando di migliorare il modo di andare da un posto all’altro.

Fin da principio, il servizio ha suscitato aspre critiche, soprattutto da parte dei tassisti che hanno dovuto accettare un nuovo competitor che di fatto non era sottoposto a rispettare determinate regole. D’altra parte, alla sua nascita Uber ha sfruttato una zona d’ombra nelle regolamentazioni del trasporto pubblico per forzare il mercato ed espandersi. Nonostante l’applicazione di diversi veti e sentenze, la diffusione del servizio è diventata capillare: Uber è presente in più di 507 città in 84 Paesi del mondo, vanta dieci milioni di corse giornaliere e circa due milioni di autisti. Secondo quanto emerge dai dati di Bloomberg, la società ha registrato 2 miliardi di dollari alla fine del terzo trimestre del 2017 con un aumento pari al 17% rispetto a quello precedente.
Nonostante l’inarrestabile ascesa, negli ultimi dodici mesi l’azienda statunitense ha dovuto attraversare una serie pesantissima di scandali, dalle molestie sessuali alle battaglie legali, dall’utilizzo di macchine fake per ingannare le forze dell’ordine ai colpi di mano degli investitori, senza dimenticare le varie crisi di mercato e le proteste dei lavoratori. 

In particolare nel mese di novembre sono emersi dati inquietanti sul recente operato di Uber. Il primis lo scandalo legato al comportamento tenuto dall’azienda a seguito di un attacco hacker subito l’anno prima. A ottobre del 2016 infatti, un cyber-attacco ha costato all’azienda la perdita dei dati personali (nomi, email, numeri di telefono, numeri di patente) di 50 milioni di utenti e di 7 milioni di autisti. Il punto è che per un anno la società americana ha nascosto l’accaduto, omettendo anche di dire di aver pagato un riscatto di 100 mila dollari per evitare che i dati venissero diffusi, dimostrandosi tra l’altro recidiva, visto che già nel 2014 aveva taciuto di aver subito un attacco informatico.
Come se non bastasse poi, sempre nel mese di novembre, Uber è stata accusata da Google di spionaggio industriale. La rivelazione è emersa nelle fasi preliminari del processo intentato da Waymo, società di Google che sviluppa automobili a guida autonoma, contro Uber. Richard Jacobs che in passato è stato il manager della global intelligence di Uber  ha rivelato l’esistenza di una complessa struttura in seno all’azienda dedicata appositamente alla spionaggio industriale e alla raccolta di informazioni segrete sull’avanzamento dei lavori dei concorrenti.

Negli ultimi mesi però pare che il vento stia cambiando. Il nuovo ad, Dara Khosrowshahi, che ad agosto ha sostituito Kalanick alla guida della società, ha introdotto nuove parole d’ordine nella cultura aziendale, con l’idea dell’umiltà e del lavoro e ha criticato pubblicamente il suo predecessore, quasi a voler dimostrare la nuova integrità dell’azienda. La nuova vita di Uber passa ora attraverso un piano di cui tutti parlano in azienda, «i 180 giorni», sei mesi per migliorare l’azienda dal punto di vista degli autisti e del servizio per gli utenti, dai diritti dei lavoratori in concomitanza con le logiche di profitto. Nonostante gli incidenti di percorso la scommessa di Uber ha tenuto anche il passo degli investitori. In Cina infatti, dove affrontava la grande concorrenza interna, la società americana ha fatto un patto con i concorrenti di Didi, mentre un nuovo investimento miliardario è in arrivo dai giapponesi di SoftBank.

A cura della redazione
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