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La legge difende dal reato di offesa e diffamazione anche via web

Quante volte leggiamo sui social dei commenti inappropriati, degli epiteti sgarbati o delle vere e proprie offese? Difendersi dalla diffamazione via web si può.

Viene spontaneo associare la piazza virtuale dei social ai commenti da bar, dove tutti dicono di tutto, spesso a sproposito, senza rendersi conto delle conseguenze dei propri commenti.
Se esiste il reato di diffamazione per offese verbali a cui spesso è data soddisfazione con un risarcimento pecuniario, ancor più esso vale nel caso di affermazioni o allusioni scritte o riprese in foto o video.
Il fatto di cancellare il post incriminato o togliere un video non ha gran valore, nel momento in cui questo è stato salvato su supporto personale dall’offeso o da terze persone.

Si sa infatti che quando si carica una foto sui social, questa diventa scaricabile e salvabile da terzi. L’unica maniera per tutelare la privacy, sarebbe depositare le foto nelle apposite banche dati, come fanno i cantanti per i loro testi, ci si dovrebbe rivolgere ad appositi registri ed enti.

Ad ogni modo la legge si è occupata di diffamazione via web e quindi esistono precedenti a cui si può far capo.

Il Reato di Diffamazione si intende nel momento in cui l’offesa viene comunicata ad almeno due persone ed è offensiva dell’altrui reputazione che si intende come onore e decoro di una persona, circa l’opinione degli altri.
Per offesa alla reputazione si intende anche l’attribuzione di un fatto illecito quando questo viene identificato come riprovevole dalla comunità, in base a principi condivisi: si ricorda l’insulto alla professionalità, ai difetti fisici o per esempio l’attribuzione di appellativi come “ladro” ad una persona, anche qualora fosse condannata per furto.

La diffamazione è un reato di evento che scatta nel momento in cui la frase viene percepita dai destinatari. Su Internet, questa conoscenza la si ha non quando l’offesa viene messa in rete, ma quando gli utenti si collegano e percepiscono l’ingiuria (Cass. Pen., V° Sez., n. 23624 del 27.04.2012).

Nel caso di Facebook diventa diffamazione dal momento della pubblicazione in bacheca, nelle aree destinate ai commenti o alle informazioni personali, ma è diffamazione anche l’invio di un messaggio privato contenente l’offesa a più persone, almeno due.

Per integrare il reato, l’offesa deve essere riferita ad una persona individuabile e riconoscibile anche senza farne nome e cognome, essere pubblicata in uno spazio pubblico o essere visibile ad almeno due persone, ci deve essere la percezione della volontà di offendere da parte del diffamante.
Una volta che la diffamazione risponde a questi requisiti, si può agire per vie legali. Basterà fare denuncia al qualsiasi forza dell’ordine, entro tre mesi dalla conoscenza dell’ingiuria. Meglio se si passa attraverso un legale, ma si può agire anche in via personale recandosi in Questura e sporgendo denuncia.

La pena che si applica a colui che diffama negli spazi pubblici è quella prevista dal comma III dell’articolo 595 del Codice Penale, ovvero: la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni oppure, in alternativa la multa non inferiore ad € 516.
Quando invece sono utilizzati i messaggi privati la pena che si applica è quella della reclusione fino ad 1 anno oppure, in alternativa la multa fino ad € 1.032.

Oltre a queste sanzioni, il Giudice penale stabilirà poi che il colpevole è tenuto a pagare una somma di danaro in favore della vittima a titolo di risarcimento del danno morale. Affinché la condanna al risarcimento possa essere pronunciata nel processo penale, è necessario che la parte offesa si costituisca parte civile nel processo. In alternativa, il risarcimento del danno potrà sempre essere richiesto in sede civile, quando non sia stato liquidato in sede penale.
Nel caso in cui la denuncia non sia penale, ma solo civile, il procedimento è lo stesso e si potrà comunque ottenere un risarcimento.
Nel processo civile, per le richieste di risarcimento inferiori a € 5.000 è sempre competente il Giudice di Pace e, qualora la somma richiesta sia inferiore ad € 1.100, la parte può stare in giudizio anche senza avvocato. Per le richieste superiori ad € 5.000 è invece competente il Tribunale.

Spetta a colui che agisce in giudizio – e dunque alla vittima – il compito di provare il fatto, portando delle prove, come ad esempio l’immagine stampata con impresse le scritte diffamatorie, oppure / in aggiunta indicando dei testimoni che possano confermare i fatti.

Alcune sentenze esplicative:

Giudice Penale di Livorno (G.I.P.), Sentenza del 31.12.2012

In questa decisione, il Giudice penale di Livorno ha riconosciuto un risarcimento di € 3.000, oltre ad € 1.500 di spese legali, in favore dei proprietari di un centro estetico nei confronti dei quali una ex dipendente aveva scritto le seguenti frasi nella propria bacheca: “sono persone che non lavorano seriamente” e “sono dei pezzi di m…”.

Tribunale Penale di Roma, Sentenza del 21.02.2012, e Corte di Cassazione, Sentenza n. 16712 del 16.04.2014

Nella decisione del Tribunale di Roma, confermata poi nell’ultimo grado di giudizio dalla Corte di Cassazione, è stato condannato un maresciallo della Guardia di Finanza il quale aveva pubblicato, nei dati personali del proprio profilo, la seguente frase: “… attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega sommamente raccomandato e leccaculo … ma me ne fotto … per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie”.

La sanzione penale inflittagli in via definitiva è stata quella di 3 mesi di r
eclusione.

Tribunale di Trento, Sentenza del 15.05.2014, depositata in data 14.07.2014

Qui il Giudice ha condannato un soggetto per aver scritto sulla propria bacheca la seguente frase: “… Prenda atto la Ministra che ovunque si muove viene fischiata e insultata. Ci sarà un perché! Rassegni le dimissioni e se ne ritorni nella Giungla dalla quale è uscita”.

Le pene inflitte sono state: € 2.500 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali; € 2.000 per ciascuna delle quattro associazioni costituitesi parti civili nel processo, oltre ad € 1.600 per un avvocato che difendeva due associazioni ed € 1.300 per ciascuno degli altri due avvocati.

Tribunale di Genova, I° Sezione, Sentenza del 14.11.2013

In questa decisione, il Giudice penale del Tribunale di Genova ha condannato un soggetto il quale, nella propria bacheca, aveva scritto le seguenti frasi a carico di un suo conoscente: “G. sei una montagna si m.” e poi ancora “continui, da invertebrato quale sei, a fare il vigliacco”.

Tali frasi sono state ritenute dal giudicante come lesive dell’onore dell’insultato.

Durante il processo è poi emerso che il profilo dell’imputato era accessibile a tutti gli iscritti del social network, e perciò è stata applicata l’aggravante di cui all’articolo 595 III° comma Cod. Pen..

La condanna è consistita nella multa di € 1.500 e nel pagamento delle spese processuali, oltre ad € 1.800 per le spese legali della parte offesa. Con riferimento al risarcimento del danno, il giudicante ha affermato che nel corso del processo non era stata raggiunta la prova dell’entità del danno, il quale pertanto avrebbe potuto essere richiesto in un separato processo civile.

Tribunale di Cagliari (G.I.P.), Sezione Minori, Sentenza del 11.11.2013

Il Giudice penale di Cagliari, con una decisione del 2013, ha invece assolto un minorenne che aveva scritto, sulla propria bacheca personale, la seguente frase indirizzata ad altra minore: “troia, bagassa, figlia di bagassa”.

Nel far ciò il giudicante ha ritenuto tali fatti come “occasionali” e frutto di “leggerezza”. In questa decisione può aver “pesato” la minore età del colpevole.

Tribunale del Vallo della Lucania (G.U.P.), Sentenza n. 22 del 22.02.2016

Con questa decisione, il Giudice lucano ha assolto gli amministratori di un gruppo facebook per la diffamazione postata da alcuni iscritti, sul presupposto che non può pretendersi dai primi un controllo costante e preventivo su tutto quello che viene scritto nella pagina; ciò a patto che le offese vengano successivamente cancellate il prima possibile.

Tribunale di Aosta, Sentenza del 17.05.2012

Il Giudice penale di Aosta, in una decisione del 2012, ha condannato una donna italiana che aveva scritto sulla bacheca del profilo del figlio minore – all’epoca convivente con l’ex marito e con la compagna cubana di questi – la seguente frase: “… non ti arrabbiare N. sono solo delle foto di pubblicità che non hanno alcun valore … pensa alla tua mamma … hai una mamma bellissima … è inutile che qualcuno cerchi di imitarla … rimane sempre … spazzatura del terzo mondo”.

La pena inflitta è stata quella della multa di € 500, oltre al pagamento delle spese processuali. È stata poi disposta la condanna al risarcimento del danno per € 2.500 in favore della donna cubana, oltre al pagamento delle spese legali di quest’ultima pari ad € 1.000.

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