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Il dipendente fa troppo il furbo? Chiedilo al detective

La Cassazione conferma la possibilità di rivolgersi alle agenzie investigative per accertare illeciti. Ma attenzione ai limiti e ai mezzi. Jobs Act e Corte Europea, infatti, “bisticciano” un po’ a proposito di email e dati digitali.


“Pasito a pasito…”, un passettino dopo l’altro, come recita il tormentone della calda stagione che si sta avviando all’autunno. Così ordinamento e giurisprudenza italiane riconoscono, a spizzichi e mozzichi, competenze e possibilità d’intervento a investigatori e agenzie investigative. Anche in aree e per indagini che il buon senso avrebbe suggerito praticabili da tempo.
Ma il buon senso pare virtù in via d’estinzione, dagli Appennini alle Alpi, e anche per questo esistono le norme e i giudici.

Il casus belli – in questa circostanza casus pacis – per la presente riflessione è dato da una recente sentenza della Suprema Corte. La Cassazione, a luglio, ha confermato infatti la legittimità del “controllo difensivo”, da parte del datore di lavoro, attuato mediante agenzie investigative che sia non soltanto giustificato da un fondato sospetto di realizzazione di condotte illecite da parte del lavoratore controllato, ma anche rispettoso della normativa in materia di privacy e, dunque, non invasivo, adeguato e proporzionato.
Quasi nulla di nuovo, rispetto al recente passato, ma una importante precisazione, il consolidamento di un punto giurisprudenziale che dovrebbe chiudere quasi ogni questione in proposito. Quasi.

Quali sono i principali limiti cui è sottoposta l’attività dei detective ingaggiati dall’imprenditore?
Nei tratti fondamentali la questione era già stata chiarita, un paio d’anni fa, dalla medesima alta Corte, tramite un altro pronunciamento ad hoc. Per operare in modo lecito, le agenzie investigative non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria. Il che significa che non possono verificare la durata o la qualità della prestazione del dipendente.

Gli “ispettori privati” possono essere incaricati solo al fine di prevenire la commissione di illeciti da parte dei dipendenti. Anche il sospetto o la semplice ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione consente all’azienda di incaricare gli indagatori, essendo il prestatore d’opera tenuto ad agire diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro.
L’ingerenza dei professionisti, in altre parole, non si può spingere oltre un determinato limite, ossia non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento né l’inadempimento dell’obbligo del lavoratore di prestare la propria opera, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore.
Pertanto, è legittimo il controllo dei lavoratori attraverso investigatori privati quando è volto a evitare commissione di illeciti o comportamenti con risvolti penali o, ancora, condotte che contrastino con il cosiddetto “minimo etico” richiesto o, infine, inosservanti dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro.

Fin qui sembra tutto chiaro.
Dove, invece, il terreno potrebbe farsi spinoso e l’approccio presentare insidie? Nella valutazione dei mezzi utilizzati. Appare infatti evidente come oggi una parte importante della sorveglianza dovrebbe vertere sul controllo delle attività digitali e in particolare del traffico email in capo al dipendente sospetto infedele o delinquente.
Sul delicato punto il cosiddetto “decreto semplificazioni connesso” al Jobs Act stabilisce che pc, tablet, smartphone badge dei collaboratori potranno essere controllati dall’azienda senza un precedente accordo sindacale, com’era d’uso e obbligo in precedenza. E sulla base dei dati raccolti, l’impresa potrà prendere provvedimenti disciplinari.

Giunge però, pochi giorni fa, la Corte Europea dei Diritti Umani, a delineare qualche dettaglio – forse ingarbugliando un po’ le cose: per determinare se l’accesso e il monitoraggio delle comunicazioni di un lavoratore siano legittimi, dicono i magistrati comunitari, le autorità nazionali devono innanzitutto stabilire se il lavoratore abbia ricevuto dal suo datore di lavoro una notifica sulla possibilità che l’azienda prenda misure per controllare la sua corrispondenza e altre comunicazioni, su come queste misure saranno messe in atto, e il loro scopo. La Corte ha stabilito che per non incorrere in una violazione della privacy del lavoratore la notifica deve essere chiara sulla natura dei controlli effettuati e data prima che questi siano effettuati. I giudici di Strasburgo indicano che senza una previa notifica il datore di lavoro non deve accedere al contenuto delle comunicazioni del lavoratore.

Questo nei tratti fondamentali.
Come si vede, la strada verso una regolamentazione scevra da dubbi e rischi è ancora lunga. Noi investigatori, per oggi, incassiamo questo pasito in avanti e ringraziamo. Competenza e professionalità lo meritavano.
Il futuro è per tutti, oggi più che mai, una questione di opportunità: facciamo tutti buon uso di questa che ci è stata appena concessa.

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