Il braccialetto elettronico è al centro di un acceso dibattito, tra inefficienze operative e nuove disposizioni normative. Il sistema italiano è chiamato a un cambiamento profondo: servono protocolli chiari, personale formato e una gestione integrata per garantire reale tutela alle vittime.
Braccialetto elettronico: il nuovo quadro normativo italiano
Negli ultimi mesi il braccialetto elettronico è tornato al centro del dibattito giuridico e sociale, soprattutto in relazione ai casi di violenza di genere. Episodi di evasione, mancate attivazioni o malfunzionamenti hanno messo in evidenza limiti strutturali e carenze operative del sistema italiano.
In questo senso, il recente inserimento dell’articolo 97-ter nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale rappresenta un passo in avanti. Esso introduce l’obbligo per la polizia giudiziaria, insieme alla società incaricata, di verificare la fattibilità tecnica ed operativa del dispositivo. L’ordine del giorno, approvato dal Senato, impegna il Governo a tradurre queste norme in prassi concrete: dall’istruzione degli indagati sull’uso corretto del braccialetto, fino alla gestione degli allarmi e alla presentazione di una relazione semestrale al Parlamento sull’efficacia dello strumento.
Tuttavia, come afferma la senatrice Valeria Valente, le criticità non si esauriscono con la normativa. I ritardi tecnici, la carenza di dispositivi e l’estensione obbligatoria del loro uso, prevista dalla legge Roccella del 2023, pongono diverse sfide. Il braccialetto, pur essendo un deterrente, non è sempre la soluzione più adatta. Ogni applicazione, infatti, dev’essere valutata caso per caso.
Malfunzionamenti e limiti strutturali
Secondo il magistrato Francesco Menditto, le problematiche tecniche non sono frequenti, ma quando si presentano rientrano in tre categorie. La prima è quella dei difetti del dispositivo, risolvibili con sostituzioni. La seconda riguarda l’impossibilità di funzionamento in assenza di segnale radiomobile. La terza, infine, è legata all’uso scorretto da parte dell’indagato, come la mancata ricarica del telefono associato al dispositivo.
Il vero problema, secondo Menditto, è l’incremento esponenziale delle applicazioni: da circa 25 al mese a livello nazionale si è passati a 500, rendendo insostenibile il sistema di monitoraggio con le risorse attuali. Serve dunque un adeguamento della macchina organizzativa, con una distribuzione più efficiente delle responsabilità tra polizia, carabinieri e società incaricate.
In questo senso, l’attenzione alla valutazione personalizzata dei vari casi è centrale. La ricercatrice Perla Allegri ha sottolineato come la verifica della sola fattibilità tecnica e operativa sia riduttiva. Per essere davvero efficace, l’applicazione del braccialetto deve tener conto delle condizioni sociali, ambientali e contestuali di ciascun caso.
I modelli virtuosi in Europa
In Europa non mancano esempi virtuosi. La Spagna è spesso indicata come un modello da seguire. La legge n. 1/2004 è stata la prima a introdurre i dispositivi elettronici per il monitoraggio degli autori di violenza di genere, mentre il sistema telematico implementato nel 2009 consente un controllo in tempo reale. La legge n. 10/2022 ha ulteriormente rafforzato questo meccanismo, velocizzando la consegna dei dispositivi alle vittime.
La Francia adotta invece un approccio fondato su valutazioni multidisciplinari e centrali operative attive 24 ore su 24, mentre nel Regno Unito esiste una figura dedicata, il “responsible person for electronic monitoring”, che supervisiona gli allarmi e coordina gli interventi con le forze dell’ordine.
Secondo Allegri, è proprio questa visione integrata a fare la differenza. Nel sistema italiano servono protocolli precisi, esperti formati sulle dinamiche della violenza di genere e risorse umane adeguate, anche al di fuori della polizia giudiziaria. Una struttura capillare e competente è l’unico modo per evitare che il braccialetto elettronico diventi una mera illusione di sicurezza.